venerdì 28 ottobre 2011

Mancanza di neu(T)rony


Ecco cosa è accaduto: Trony apre un megastore a Roma, vicino ponte Milvio, con pubblicità martellante per settimane, grandi sconti su TV lcd e cellulari e si blocca la città.

Migliaia di individui fin dalla notte si sono avviati verso il negozio come profughi in fuga per potersi accaparrare qualcosa che non è vitale, ma decisamente superfluo.

Qualcosa che sicuramente avevano già, ma non dell’ultimo modello.



15 mila persone hanno atteso per lunghe ore di poter entrare, correre come forsennati per i reparti alla ricerca dell’oggetto feticcio e incolonnarsi di nuovo per pagare, per recuperare l’auto o il motorino parcheggiati selvaggiamente e tornare a casa vincitori.

Che paese di scalzacani.
Gente che non arriva a fine mese ma che si accaparra il cellulare al moda e compra ricariche da 5 euro. Automobilisti alla guida di Suv che al selfservice non mettono più di 10 euro di gasolio. Possessori di mega tv al plasma che sicuramente non pagano il canone e forse nemmeno le rate dell’elettrodomestico.

Però ce l’hanno. Possono mostrarlo al mondo. Si esibiscono tronfi, con tutti i loro gadget all’ultimo grido, perché altrimenti si sentono delle nullità.
Quali sono, in realtà.

Ma cosa siamo diventati? E’ sconcertante assistere a questi fenomeni. 
Cominciano i saldi e i negozianti servono generi di conforto ai clienti in coda per strada da ore. 
I tour operator sbandierano vacanze da pagare in comode rate.
A rate? Una vacanza? Ma io sto a casa piuttosto.   
A rate comprerò l’appartamento e l’automobile, e già mi disturba molto. 
Qualsiasi altra cosa, se posso la acquisto altrimenti aspetto o rinuncio addirittura.
Ma cosa devo dimostrare? A chi?

E poi bisogna essere i primi. Avere quell’oggetto per primi. Attivare tutte le conoscenze che si hanno, trovare il modo per aggirare i tempi tecnici, conoscere tizio che conosce caio che va negli States per lavoro e può procurarmi quel modello che da noi arriverà tra un mese. 
E son soddisfazioni.
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mercoledì 26 ottobre 2011

La canzone del sole

Ieri ho letto che la Canzone del Sole di Lucio Battisti compie 40 anni.
Nonostante lo sgomento iniziale, facendo un po' di conti e mettendo in ordine gli avvenimenti, è vero: è già passato tutto questo tempo.

Questo pezzo, molto più di altri, è intriso di ricordi per me e penso anche per tutta la mia generazione.

E' la canzone delle gite scolastiche, cantata negli scompartimenti dei treni che andavano a Firenze o a Roma, con i sedili allungati e tutti sdraiati insieme con gli eskimo e le Clarks attaccati alle Lacoste e ai Levis501.

E' la canzone dei falò sulle spiagge la sera. Tutti in cerchio, cosparsi di latte doposole, col cuore palpitante per qualcuno appena incontrato e che non si rivedrà mai più.

E' la canzone di quando la scuola era occupata e l'autogestione consisteva nel cantare tutti insieme La locomotiva, Compagno di scuola, In fila per tre e lei, anche se forse Battisti "è un fascista!", perchè era troppo bella e poi la sapevano tutti.

E' la canzone con tre accordi che tutti sanno suonare, tranne me, che tutti sbagliano la seconda strofa ma non importa che poi si parte con "o mare nero o mare ne" e si va avanti all'infinito.

E' la canzone delle serate nella taverna di qualcuno, a mangiare polenta e salsicce, bere vino scadente, tirare fuori una chitarra scordata e provare a suonare qualcosa, a ricordare la scuola, i primi amori e quindi lei, il sottofondo simbolo della nostra gioventù.

E' la canzone che ascoltavo quando ero incinta, credendo alla diceria che il feto è cosciente dei rumori esterni e impara e memorizza. Ho passato ore e mesi con tutta la discografia di Battisti in sottofondo, cantando e accarezzandomi la pancia.  Considerando i gusti musicali di mia figlia ho fallito miseramente, ma è stato comunque bellissimo.

E' la canzone che se stiamo viaggiando in auto, io e mio marito sospiriamo, e non c'è bisogno di dire niente.
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sabato 22 ottobre 2011

La natura nelle foto - Ansel Adams

Dopo la recente visita alla mostra su 
Henri Cartier-Bresson, per la serie “Lezioni di umiltà per fotografi dilettanti”, eccoci di ritorno dalla retrospettiva “Ansel Adams – La natura è il mio regno”, a Modena fino al 29 gennaio 2012.

Settanta foto che ti fanno desiderare 
solo di partire, zaino in spalla e scarponcini, verso il parco di Yosemite 
o il Grand Canyon per vivere a contatto con questi boschi e queste montagne per sempre.

Solo bianco e nero, ma infinite scale di grigi, e ti sembra di essere lì. 

Di sentire lo scroscio della cascata più alta del mondo, il tonfo dei pesanti mucchi di neve fresca che cadono dalle sequoie, il tuono lontano del temporale che sta arrivando.

Si capisce che amava i suoi parchi in modo viscerale. 
Ha trascorso la vita a fotografarli e a difenderli. Era un grande ambientalista e ha contribuito in modo determinante alla conservazione delle bellezze naturali della West Coast americana.

Io ho avuto la fortuna di visitare sia Yosemite che il deserto del Nevada ed il Grand Canyon, ma le mie foto sono ben poca cosa in confronto a quelle che ho potuto ammirare oggi.
Le sue non sono semplici cartoline ricordo. 
Nelle sue immagini c’è tutta la grandezza e la forza della natura, ti trasmettono energia e pace allo stesso tempo.

Un uomo fortunato Ansel Adams. 
Una lunga vita, una moglie da sempre al suo fianco, una passione diventata il suo lavoro, successo, onorificenze e premi. 

Ma il tributo più grande penso sia quello postumo datogli dall’American Board of Geographic Names che ha battezzato con il suo nome una delle più alte cime della Sierra Nevada.
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venerdì 21 ottobre 2011

Fuori sintonia

Forse mi sono distratta. Forse mi ricordo male. 
Ma quando guidando si vuole svoltare occorre segnalarlo con la freccia. O no?

E’ un po’ di tempo che chiunque mi preceda sulla strada, se svolta lo fa senza avvertire.   
Hanno cambiato le regole del codice stradale senza che io me ne accorgessi?

Sono così stanca.  
Forse è solo l’età, ma mi sembra di notare un progressivo calo di buona educazione, cultura, gentilezza, eleganza. 

Il fastidio è costante e attraversa tutti i campi, reali e virtuali.

Alla tv vengono inseriti spot nel mezzo di un discorso, senza aspettare che la scena sia finita.
I programmi iniziano sempre in ritardo e vengono spostati o annullati senza alcun avvertimento.
Per non parlare del linguaggio usato nei talk show.

Sul computer appaiono banner pubblicitari a volume altissimo in mezzo a qualsiasi videata che uno stia tentando di leggere.
A ore pasti il telefono squilla in continuo per promozioni varie e ricerche di mercato. 

Le persone non salutano. Nessuno ti apre la porta, ti cede il posto.  Sulle strisce pedonali si rischia la vita quasi sempre.

Perché ci siamo così imbarbariti?

La mia generazione era forse così stanca di sentirsi dire: “Stai composto”, “Saluta e ringrazia”, “Chiedi permesso” che non ha visto l’ora di smetterla ed ha allegramente cambiato registro con i propri figli?

Forse è andata così.  
Infatti ogni volta che riprendo mia figlia per qualcosa, mi chiedo inorridita se non sto diventando come mia madre.

Ma se il risultato è questo, se io per prima mi trasformo in un portuale appena subisco il minimo torto, forse era meglio conservare le vecchie abitudini.

Obbedire alle regole, avere rispetto per gli altri, per gli anziani, per le signore, non dire parolacce e non alzare la voce.
In fondo non era male. 

C’e stato un tempo felice in cui esisteva il benzinaio che ti lavava il vetro e controllava l’olio, ti portavano a casa la spesa, un omino in divisa ti apriva l’ascensore, gli uomini ti salutavano alzando il cappello e ti davano la mano togliendosi il guanto…

Come dice sempre mio marito noi siamo fregati due volte. 
Da piccoli perché c’erano “i grandi” che avevano tutti i diritti e noi dovevamo stare zitti e in disparte e adesso  perché i giovani ci trattano come dei poveretti e non ci calcolano nemmeno.

Almeno mettessero la freccia…
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martedì 18 ottobre 2011

Modello Giuditta

Uno dei miei pittori preferiti è Gustav Klimt. 
Mi piacciono la sua tecnica, i colori, l’uso degli ori, il tridimensionale dei corpi in contrasto con il bidimensionale dei tessuti, i suoi ghirigori ipnotizzanti.

Ho quattro o cinque riproduzioni alle pareti e accarezzo da anni l’idea di un viaggetto a Vienna per visitare il Belvedere Superiore e tutti gli altri musei e palazzi che conservano la maggioranza delle sue opere.

Però due quadri originali sono riuscita a vederli “dal vivo”.  

Cinque anni fa al Mart di Rovereto, nell'ambito della mostra sulla Secessione Viennese, ho potuto ammirare Giuditta I.

Era lì, avrei potuto sfiorare la sua meravigliosa cornice, studiare le sapienti pennellate. 

Era quella vera, quella vista mille volte in ogni tipo di illustrazione, uguale ma unica.

Quando vedo l’originale di qualcosa che amo di molto famoso, sia quadro, scultura o anche luogo, sento sempre di avere aggiunto una tacca al senso della mia vita. 
 
Dico a me stessa: “Beh, se morissi adesso, almeno ho visto questa cosa, sono stata in questo posto…”.

Domenica scorsa ho aggiunto un’altra tacca: nel Palazzo Zabarella di Padova è in corso una mostra sul simbolismo e l’attrazione principale è lei: Giuditta II, unico quadro di Klimt esposto, che da solo vale il biglietto.

Giuditta II è nell’ingresso di casa mia.   
Artiglia la testa di Oloferne con l’eleganza di una gran dama, seni al vento e sguardo lontano.

Me l’ha regalata mio marito appena ci siamo conosciuti.
E’ sempre stato molto sicuro di se’…
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lunedì 17 ottobre 2011

Storie di piante

Il giuggiolo nel mio piccolo giardino è stracolmo di frutti di un bel marrone lucido.  Mi da’ il buongiorno ogni mattina quando apro la finestra della camera da letto.

Lui non lo sa, ma è stato piantato insieme ad altre specifiche piante come la rosa, la vite e gli ibischi, a perenne memoria degli anni in cui ho vissuto sui Colli Euganei nel podere della famiglia di mio marito.

Lì ogni pianta aveva la sua storia. 

Dagli anni trenta, prima il nonno e poi il padre di mio marito avevano piantato vigneti e frutteti, messo a dimora piante ornamentali e olivi, rosai ed iris.

La famiglia dei mezzadri che gestiva l’azienda vitivinicola ci aveva messo del suo, innestando molti castagni con i marronari, piantando salici e pioppi piumati, cipressi e acacie.

All’inizio degli anni ’90, quando ci siamo trasferiti nella villetta delle vacanze sopra al rustico principale, il podere era stracolmo di piante che avevano preso il sopravvento.

Io e mio marito, con l’entusiasmo dei neofiti, avevamo deciso di prendere in mano la situazione. 

Lui mi raccontava gli aneddoti legati ad ogni pianta: il ciliegio dal quale suo fratello si era lanciato fratturandosi il braccio, la prima vite di barbera piantata dal nonno che ormai aveva il tronco più grosso di quello di un albero, i quattro pioppi nel vigneto basso chiamati col nome dei mezzadri: Antimo, Miranda, Narciso e Toni e cosi via.

A nostra volta abbiamo legato i nostri ricordi ad altre piante. 
A due giovani cotogni che ci hanno regalato fioriture meravigliose. 
A fichi così piccoli e dolci che non abbiamo mai più mangiato. 
A meli e peschi inselvatichiti che abbiamo fatto fruttificare di nuovo con grande soddisfazione. 

C’erano rose e ortensie che gridavano vendetta e olivi così alti da doverli potare con cesoie e seghetti attaccati a lunghi pali. 

Mettevo mia figlia nello zainetto e passeggiando lungo i filari ed il ruscello le elencavo il nome di ogni albero, dai noccioli ai bagolari, dal noce dietro il vecchio porcile all’ippocastano con le castagne matte che raccoglieva per giocare.  

Nel giardino davanti casa c’era un grande giuggiolo e poi rose, iris, ortensie e ibischi siriacus. 
Due enormi cedri del libano dove avevamo costruito una piattaforma di legno da raggiungere con una scaletta. 
Il tiglio con l’altalena attaccata al ramo più basso e un glicine bastardo che non ne voleva sapere di fiorire.
Davanti la cantina quando è nata nostra figlia avevamo piantato una betulla. 
La sua betulla.

Poi tutto è stato parcellizzato e venduto a persone diverse. 
La villetta col suo giardino, la cantina, il vigneto alto, quello basso e il bosco.

Nessuno degli acquirenti sa la storia delle piante. 

Ma io la conosco e qualche volta su Google Earth controllo se stanno bene e ripercorro i sentieri che facevo con mia figlia sulle spalle, rimpiangendole come si fa con i vecchi amici lontani e mai dimenticati.
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giovedì 13 ottobre 2011

Yes I care


E anche quest’anno sono stata eletta rappresentante di classe. 

E’ così dalle scuole elementari. 
Vinco con quote bulgare. Un plebiscito.

Ma non ho grandi meriti. 

Solo il fatto di non essere una di quelle mamme super impegnate tra lavoro, casa e figli. 

Così quando queste signore trafelate iniziano a piangere il morto, descrivendo la loro realtà come un incubo tra ufficio, corsi di nuoto, supermercati e tintorie, ecco che scatta in me la pena e il senso di colpa: sì, io sono una casalinga, un specie in via di estinzione, una di quelle che “non fanno un cazzo tutto il giorno” (opinione diffusa), di quelle che si fanno mantenere e godono per ogni granello di polvere che sconfiggono.

Così mi candido, sempre premettendo che se ci fosse qualcun altro interessato mi farei da parte volentieri, ma non accade mai.

Il bello di questa farsa dei rappresentanti di classe è che non richiede il minimo impegno. 
Solo due riunioni in tutto l’anno scolastico della durata di un’ora al massimo.
Non venitemi a dire che non si può chiedere un’ora di permesso due volte nel corso di 9 mesi. Ma tant’è.

Io in fondo l’ho sempre fatto per mia figlia. Mi piace interessarmi alla scuola e conoscere un po’ meglio l’ambiente che frequenta tutti i giorni. 

Sono una di quelle che vanno a parlare con i professori la mattina, evitando la bagarre degli orrendi colloqui  generali, cerco di entrare in confidenza con il docente di riferimento, indago sull’andamento della classe.  

In tutti questi anni di “rappresentanza” non ci sono stati grossi problemi, per fortuna. 

Alle elementari c’era un po’ più di lavoro, tra recite di Natale e fine scuola, regali alle maestre e alle catechiste, e, cosa fondamentale, organizzazione della pizzata di fine anno.

Alle superiori ci si limita a spedire una mail riassuntiva di quello che è stato detto alle riunioni. 
Molti genitori non li ho mai visti. Sono solo un indirizzo sul computer. 
La classe è di 31 alunni, ma ieri eravamo 10 mamme.  Penso che sia un po’ triste.

Sbrigare la faccenda figli come tutto il resto che è nella lista della giornata: mandarli a scuola, dargli da mangiare (anzi agli adolescenti dare i soldi e che vadano da McDonald), procurargli un computer, vestiti e buonanotte.

Tanto ormai sono grandi. Tanto si arrangiano. Tanto non si confidano.
Io almeno ci provo.
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martedì 11 ottobre 2011

Rumori molesti


Ieri sono stata incuriosita dalla notizia che un italiano ha vinto il concorso mondiale per remixare la storica suoneria dei cellulari Nokia.

Per rinfrescarci la memoria ecco qui la vecchia versione e la vincitrice: (video.corriere.it).

Di solito sono molto orgogliosa dei successi degli italiani nel mondo, ma in questo caso mi sento abbastanza dubbiosa...

Ad ogni modo: io odio le suonerie.  Sul mio cellulare c'è il trillo di un vero telefono, così come su quello di mio marito.

Penso che una branca della psicologia dovrebbe studiare il nesso fra suoneria scelta e psiche.

Capita di essere in coda in posta o tranquillamente seduti al ristorante e venire assordati dalle peggio stronzate.
Canzoncine per bambini, versi di animali, frasi allusive, house music o fanfare, pezzi d'opera e sigle televisive.

La cosa che mi stupisce è che apparentemente il proprietario del telefonino non ha niente a che vedere con il tipo di suoneria.
Seriosi manager o casalinghe dimesse si rivelano fruitori di perversi pezzi musicali, sempre a volume altissimo, e con nonchalanche rispondono senza nemmeno vergognarsi un po'.

Con persone che conoscevo ho azzardato una specie di inchiesta.
Gli adulti si rifugiano nel classico: "è stato mio/a figlio/a, io non so nemmeno come impostarla..." oppure: "senza volerlo mi sono abbonato al servizio suonerie e non me la cavo più..." mentre per i ragazzi è un passatempo come un altro, una gara a chi ha la suoneria più strana o più alla moda.

Ci sarebbe da fare anche un discorso sui vari gadget appesi al telefonino, che lo fanno sembrare uno di quei giochini da attaccare alla culla dei neonati, pieno di pupazzetti e sonagli... ma sorvoliamo.

Penso che il mio cellulare abbia più di 5 anni. Mi serve per telefonare e mandare scarni messaggini.
Farebbe anche le foto, ma i pixel sono così grandi che non si riconoscono le persone.

Quando suona, piano, nessuno si volta allarmato e questo mi rassicura.
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domenica 9 ottobre 2011

Caccia al bronzetto

Quando questa mattina mio marito mi ha chiesto di accompagnarlo al mercatino mensile di Villafranca io non ci volevo proprio andare. 
Il troppo freddo, così tutto all'improvviso, mi faceva preferire svaghi più domestici, tipo compilare i fogli del censimento o cuocere un arrostino con le patate.

Invece poi ho ceduto perchè ha fatto la faccia del gatto di Shrek. Gli mancava solo il cappello in mano.

Ho fatto bene. Infatti nascosta in mezzo a vecchie bilance e carabattole varie, c'era lei: la sorella della mia statuetta preferita.
Si tratta di una piccola scultura in bronzo di tale Franz Iffland, che verso la fine del 1800 a Parigi ha scolpito una serie di bambine sedute che giocano con un gattino.

Un paio di anni fa, a Povegliano, mi ero innamorata della prima.
La bambina è intenta a stuzzicare con un legnetto un gattino che le si arrampica sul vestito.
Troppo carina.

Avevo fatto delle ricerche e scoperto che si tratta di riproduzioni di bronzetti del 1890 chiamate "Jolie chat".

Dopo qualche mese, al mercato di Piazzola sul Brenta, avevo individuato la seconda, però era una fusione scadente.

La bambina è sempre abbarbicata sulla sedia e il gattino è una piccola scultura a parte, da posizionare vicino.

Stamattina l'ho trovata, in ottime condizioni, però il gattino non c'era.
Perso nel corso degli anni chissà dove. 
Peccato.

Sarà motivo di future ricerche e perlustrazioni in tutti i mercatini dell'antiquariato.
Domenica prossima destinazione Soave.
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venerdì 7 ottobre 2011

Gioiellieri o pasticceri?

Questa è stata una settimana "pesante" e quindi oggi vorrei veramente dedicarmi a qualcosa di più leggero, di più dolce.
Nel vero senso della parola.

Chi si sveglia alle 6.20 come me, può ritrovarsi a fare zapping tra programmi mai immaginati e spesso fare ottime scoperte, o riscoperte, dato che si tratta sempre di repliche.

Così capita di vedere il mio beneamato Philippe Daverio o delle splendide interviste a personaggi della cultura e dello spettacolo, oppure come stamattina, piombare nel mondo dell'arte pasticcera elevata ai massimi livelli.

Carl Jung potrebbe forse spiegarmi come mai ieri giocando sul PC ad Island Paradise ho dovuto cucinare dei Macarons, a me del tutto sconosciuti, e poco fa il programma Mixeur su Rai5 ha dedicato tutta la puntata a questi meravigliosi dolcetti. Sincronicità?

Non sono dei maccheroni, come pensavo io nella mia ignoranza chiedendomi perchè fossero color pastello, bensì delle specie di mini sandwich a base di meringa e pasta di mandorle, farciti di con un velo di crema al cioccolato, al caffè, al lampone e a qualsiasi altra meraviglia che il pasticcere possa inventare.

Parlare di pasticcere in questo caso è riduttivo.
Infatti questi personaggi, protagonisti del programma, sono una via di mezzo tra architetti, designer, grafici e artisti gourmet.

Ritengo guadagnino più di un alto dirigente e sono venerati quasi come divinità in terra.

Le loro cucine sembrano musei di arte moderna. I loro attrezzi da lavoro brillano come sculture e probabilmente costano altrettanto.

I loro dolci vengono esposti in vetrine che somigliano più a quelle di una gioielleria che di una normale pasticceria.

I guru si chiamano Christophe Michalak o Sadaharu Aoki, sono magri ed eleganti, mai uno sbuffo di zucchero a velo o di cacao imbratta la loro divisa su misura.

Sono rimasta affascinata dalla perizia che hanno nell'usare la sac a poche: sembrano dei frati amanuensi.

Il risultato del loro lavoro va in scatolette di cartoncino, chiuse con carte pregiate e fiocchi di raso o velluto.

La delusione nell'aprire questa confezione degna di una parure di diamanti, forse verrà mitigata dalla bontà del contenuto.
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giovedì 6 ottobre 2011

Che brutta giornata

Oggi è morto Steve Jobs.
Il mondo è più povero.

Tutta la sua meravigliosa creatività, il suo talento e la sua grinta non sono bastati a sconfiggere il cancro.
Non è giusto, ma non resta che rassegnarsi.
Ci ha lasciato un patrimonio di idee e di oggetti che sono ormai dei classici della nostra vita.
Speriamo che abbia ceduto il timone a chi saprà andare nella sua stessa direzione, ma sarà difficile.

Ripenso spesso al suo discorso ai neolaureati di Stanford, un piccolo gioiello della comunicazione.
Raccontava in modo semplice la sua vita, il suo essere partito in qualche modo svantaggiato, il suo essere andato un po' alla deriva prima di trovare la rotta giusta.

Diceva che tutto serve, che bisogna unire i puntini per vedere il disegno finale. 
Anche da un corso di calligrafia può nascere una grande idea.

Bisogna essere affamati e pazzi, non bisogna accontentarsi...o arrendersi.

Solo il suo fisico l'ha fatto.
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mercoledì 5 ottobre 2011

Se chiudono tutte le enciclopedie...


E’ stato veramente un piccolo shock ieri sera, cercare su Wikipedia notizie sull’autore di un romanzo che sto leggendo e trovare il  mesto comunicato di autosospensione.


Il giorno prima mi era capitato con Nonciclopedia e, nonostante frequentassi il sito saltuariamente e solo per farmi quattro risate, era stato ugualmente fastidioso.

Fastidioso perché l’ho percepito come una prevaricazione. Il potere ed il denaro contro la libertà di pensiero.  Anche di pensiero stupido o denigratorio. Ma sempre pensiero.

Ci deve essere il modo di fare una legge migliore di questa. 
Un conto è pubblicare atti processuali “a vanvera” e un altro è impedire di fatto la divulgazione di ogni post, commento, notizia che potrebbe offendere qualcuno. 
Siamo un popolo di permalosi, io per prima, ma bloccare la libera circolazione di notizie sarebbe veramente un passo indietro, verso periodi oscuri che non ci appartengono più.

Spero proprio che Wikipedia riapra. La consulto così spesso. 
Mi salva quando scommetto con mio marito sull’età degli attori o dei cantanti. Mi fornisce spiegazioni veloci su i più vari argomenti, mi rinfresca la memoria su molti fatti storici accaduti, mi spiega le cose senza essere pedante.
Si sa che per approfondire si devono consultare anche altre fonti però la prima occhiata cade sempre lì.

Come per tante invenzioni degli ultimi decenni è praticamente impensabile tornare indietro.

Ricordo le mie ricerche consultando l’enciclopedia Universo, oppure la Treccani a casa della mia amica Elena. Erano aggiornate ad anni prima, ma andava bene così. 
Altre volte si andava in biblioteca, ma anche lì non è che le notizie fossero poi così recenti. 

Adesso abbiamo bisogno del tempo reale, non ci sono alternative.
Magari quello che leggo sarà incompleto, forse sbagliato, ma preferisco rischiare che sapere che c’è un bavaglio che blocca sul nascere il flusso continuo delle news.
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