lunedì 19 ottobre 2015

Due mostre fotografiche a Venezia



Sabato abbiamo approfittato della bella giornata di sole per fare un giro a Venezia, dove, come spesso accade, ci attendevano due importanti mostre fotografiche.

La mattina abbiamo visitato nella suggestiva Tesa 113 dell’Arsenale la mostra “From These Hands: A Journey Along The Coffee Trail” di SteveMcCurry.

62 foto scattate negli ultimi 30 anni tutte accomunate da un unico filo conduttore: il caffè. 


Dal Brasile al Vietnam, dall’India alla Tanzania, volti e paesaggi ci raccontano cosa c’è dietro ad una tazzina di caffè magari bevuto frettolosamente in piedi, senza curarsene più di tanto.
Ci sono sguardi profondi, solchi nel terreno, sacchi pieni di chicchi rossi, campi assolati e cieli tempestosi.

Le foto di McCurry entrano ti entrano dentro e riescono a sempre a meravigliare e commuovere.

Ogni foto ti fa pensare “questa è la migliore”, ma solo fino alla successiva, perché ognuna è un capolavoro. 
Tecnica, istinto, passione e compassione. 

Tutto questo fa di McCurry un genio della fotografia, e, usando una definizione un po’ abusata ma perfettamente calzante nel suo caso, “una bella persona”.


Nel pomeriggio ci siamo spostati alla Giudecca, dove presso la “Casa dei Tre Oci” è in corso la mostra: Sguardo di Donna. Da Diane Arbus a Letizia Battaglia, la passione e il coraggio.

Vorrei poter parlare bene di questa mostra. 
Sono una donna e ovviamente adoro quando il mio genere si distingue positivamente.
Non è questo il caso. Almeno per me.  

Perché la maggioranza della critica si sperticherà sicuramente per questo allestimento e soprattutto per questa selezione di opere di 25 fotografe, alcune molto molto famose, che hanno come filo conduttore il provocare un senso di disagio e fastidio.


Situazioni disturbanti, temi falsamente impegnati, mancanza totale di spontaneità, ricerca del diverso fine a sé stesso.

Potrei andare avanti ancora.   
Eravamo in quattro, di sesso ed età differenti, ma il giudizio è stato unanime: 44 euro buttati via.

Situazioni troppo costruite oppure al contrario cruda ripresa della realtà, opposti che in ogni caso provocano disturbo.

Sembra che ognuna di queste fotografe abbia come primo obiettivo quello di dimostrare di essere più cazzuta di un fotografo maschio.  

Il solito malinteso desiderio di uguaglianza che fa agire certe donne come fossero i peggiori degli uomini, invece di brillare per la propria diversità di genere e ottenere successi proprio in quanto donne, con un modo di agire femminile ma altrettanto valido.

Sono tutte toste, con le palle.  
Non hanno paura o schifo di nulla. 
Non c’è poesia, gentilezza, pietà. 

Insomma per me il bilancio è stato questo: 25 fotografe non fanno un McCurry!
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giovedì 8 ottobre 2015

Expo, in extremis



Cominciamo bene...

È una costante della mia vita fare le cose quasi allo scadere del tempo massimo.
Sono una che tende a pensare troppo, valuto tutte le opzioni, mi sembra che non sia mai il momento giusto, che aspettando otterrò il risultato migliore.

Spesso mi è andata bene ma nel caso di Expo posso affermare con sicurezza che andarci in maggio sarebbe stata la scelta vincente.


Evidentemente moltissime persone si sono rese conto che alla fine del mese chiude e che visitare un’esposizione universale è un evento da non perdere.

Sono partita abbastanza avvantaggiata: biglietti gratis, comodo passaggio in auto fino a Rho. 
Mio marito era impegnato tutta la settimana nella fiera EMO (Fiera mondiale delle macchine utensili) che si tiene a fianco Expo e quindi mi ha accompagnata ben volentieri un paio di giorni. 

Lunedì alle 9,00 ero alla porta Fiorenza e devo dire che in dieci minuti sono entrata (si vede che hanno anticipato l’orario di apertura).
Da lì si deve percorrere tutta una passerella coperta che porta al lato ovest, di fronte al Padiglione Zero.
A Porta Triulza la folla era già oceanica e fiumane di persone si riversavano verso il Decumano.

Ho deciso che la mia strategia per il primo giorno sarebbe stata quella di evitare accuratamente i luoghi più intasati e rimandare al giorno dopo eventuali visite mirate una volta che avessi capito come funzionava il tutto.

Algeria, Marocco, Qatar e Iran

Questo mi ha portato a zigzagare per tutto il giorno, visitando gli stand apparentemente con meno appeal ma non per questo meno interessanti.
I cluster del caffè, del cioccolato, del riso, in mezzo a profumi meravigliosi e a persone così diverse da noi.

Polonia, Food truck olandesi con sullo sfondo Giappone, Francia, Cina

Era ancora presto e sono riuscita a visitare il Bahrain e il Vietnam ma le scolaresche arrivavano a fiotti e orde di studenti correvano da ogni parte in cerca di timbri per il passaporto che si comprava all’ingresso, unico loro interesse e chissenefrega di nutrire il pianeta e compagnia bella.

Appena possibile mi sedevo e osservavo questa umanità impazzita, disposta a fare cinque o sei ore di coda per visitare i padiglioni del Giappone o del Kazahstan.  


Sono faticosamente arrivata all’albero della vita, scavalcando un serpentone di persone che tentava di entrare a Palazzo Italia e mi sono rintanata nel cluster Bio mediterraneo, ho mangiato tunisino e ho visto lo spettacolo di musica e getti d’acqua sul Lake Arena.

Poi ho tentato nuovamente di visitare qualche padiglione ma le code erano ovunque. 
Allora ho preso la navetta gratuita che fa il giro di tutta l’isola, scendendo a caso e guardando, sempre da fuori, le varie architetture, le piante, i laghetti.

Ci vuole una bella fantasia...

La stanchezza cominciava a farsi sentire, ma ero in buona compagnia. 
Gente stesa ovunque, spiaggiati lungo nei giardinetti, buttati sui gradini vicino gli stagni.
L’Expo non è per tutti i fisici! 
Il brusio continuo, gli altoparlanti, musiche che si accavallano, tutto contribuisce a stordire la mente, laddove le gambe ti hanno già abbandonato da un pezzo.

500 kg di cioccolato per il plastico polacco e carica batterie cioccolatosi

L’ultima ora l’ho passata seduta su un cubotto di finto cioccolato fondente dove si potevano ricaricare i cellulari, così fino alle 18 quando ho ritrovato mio marito (cadavere quasi quanto me) all’uscita. Un’ora secca di auto per attraversare Milano e poi come due zombie abbiamo cenato e alle 21 abbiamo spento la luce.

Martedì mattina ero carica e piena di piani infallibili…
Mi sono fiondata al Padiglione della Malesia che apriva in anticipo e poi di corsa verso il Regno Unito e di nuovo indietro verso la Thailandia che apriva alle 10,30.
Nessuna coda, ero quasi ottimista.   
Mi sono sparata Argentina, Polonia, Austria, Repubblica Ceca, Irlanda e Moldova senza problemi.

Giochi di luce e materiali dalla Cina al Montenegro

Ma ormai erano arrivati tutti e si sono ripresentati gli stessi problemi del giorno prima.
Allora mi sono spostata ai cluster delle Isole e delle zone aride.

Anch'io ho il mio souvenir dell'Expo!

Ho visitato un deserto stand dell’Enel e il padiglione del Brasile, dato che ho scoperto che la coda era solo per camminare sulla rete, mentre nel padiglione vero e proprio non ci andava nessuno.

Brasile
Ho mangiato laotiano, piccantissimo.
Ho di nuovo preso la navetta, tanto per riposarmi, rivisto lo spettacolo dell’Albero della vita, entrata nell’atrio di Palazzo Italia per fare qualche foto, vagolato di qua e di là senza meta, sempre sconvolta dalla marea di gente in coda davanti al Giappone, al Qatar, alla Cina, Corea, dove i cartelli indicavano ore di attesa per poter entrare. 

Palazzo Italia con la sua brava coda di persone

Qualcosa non ha funzionato in questo Expo.
Per una volta non credo che la colpa sia completamente degli italiani. 
Infatti tutto il sito mi è piaciuto moltissimo.
Le infrastrutture, il personale, la pulizia, i viali e le piazze, i ponti e i laghi, le piante. 

Tutto fatto bene. Un grande dispiegamento di forze dell’ordine a garantire la sicurezza, uno spettacolo di architetture diverse, di profumi, colori.

Mah...
L’errore è stato nella progettazione dei padiglioni, dei percorsi interni, nella durata dei vari filmati esplicativi.
Ogni cosa ha contribuito a creare intasamento. 
Quasi nessuno stand era progettato per far scorrere la gente. Molti prevedono l’ingresso di un tot di persone alla volta per fruire dei vari momenti esplicativi.
Assurdo. 

Se si erano stimati 20 milioni di visitatori come pensavano di mostrare loro l’interno dei padiglioni?

Probabilmente mi sfugge qualcosa. 
Forse l’importante era far muovere la gente, farli spendere in cibo e souvenir, mentre il vero messaggio di ogni paese era riservato a ristretti gruppi di visitatori che entrano in altri orari o dalle porte riservate ai vip (ce n’è una in ogni padiglione).

Forse per ogni paese era solo un pretesto per promuovere il turismo e l’esportazione di prodotti tipici.

Infatti le cose più pertinenti che ho visto, tipo i prototipi delle “jelly farm” oppure i modellini delle pale eoliche da famiglia o lo sfruttamento delle biomasse erano in stand deserti, troppo noiosi per attirare visitatori.

Insomma il bilancio per me è abbastanza positivo, una grande esperienza antropologica e tante cose interessanti, curiose e strane.

Ma sono curiosa di sentire il bilancio vero, quello che cominceremo a conoscere tra un mesetto.
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lunedì 21 settembre 2015

Di foto ma anche di cibo e di come siamo cambiati



Anche se è un po’ che non scrivo non pensiate che non stia rimuginando su vari argomenti!  
Prendo mentalmente appunti e mi riprometto di esternare come una volta tutte le mie considerazioni sui “guasti” che mi circondano.

Adesso, anzi, già da stanotte, mi sto arrovellando sull’analogia che ho trovato tra fotografia e cibo o meglio sulla percezione che ne abbiamo oggi rispetto ad anni fa.

Come ho raccontato più volte mio padre era un discreto fotoamatore. 
A casa nostra c’è sempre stata la camera oscura ed i litigi sui soldi spesi in macchine fotografiche e sulle ore passate lì dentro erano frequenti tra i miei genitori.
Ma la mia realtà era un’eccezione. 

Diciamo che negli anni ’60 avevamo queste categorie: grandi fotografi conosciuti da tutti (Cartier-Bresson, Avedon, Adams ecc.), i fotografi professionisti nei diversi settori, dalla moda allo sport, passando per i documentaristi e altro, conosciuti dagli addetti ai lavori, i fotografi da cerimonie e ritratti, conosciuti nella loro città ai quali ci si rivolgeva dando cieca fiducia e pagandoli profumatamente, i fotoamatori che frequentavano i circoli e tornavano a casa puzzando di fumo come mio padre e poi il resto del mondo, cioè quelli che compravano due rullini quando andavano in ferie e un altro che gli durava tutto il resto dell’anno.
Facevano le foto ricordo. 
Quelle che era bello sfogliare in famiglia, magari tediando i malcapitati ospiti.

Anche il cibo era concepito in modo diverso.
C’erano i grandi ristoranti, io mi ricordo solo Chez Maxim a Parigi (ero troppo piccola per ricordare nomi di chef) o i 12 Apostoli qui a Verona, poi c’erano ristoranti e trattorie che si distinguevano dall’appellativo “se magna ben” o “se magna mal”, poi c’erano i pranzi in famiglia dove poteva avvenire che si chiedesse la ricetta delle lasagne alla zia o della torta alla nonna e quella era l’unica occasione in cui si parlava di dosi e modalità di cottura.

La cosa più esotica era l’ananas nella fruttiera.
L’unico critico gastronomico che ricordo era Luigi Veronelli e pochi avevano l’ardire di contraddirlo.

Avete già capito dove voglio arrivare…

Oggi siamo tutti critici fotografici e gastronomici, ma nello stesso tempo anche professionisti dello scatto e del soffritto, saputelli e convinti di essere circondati da incompetenti o peggio di essere noi dei geni incompresi.

Frequento forum e vedo molte trasmissioni televisive sull’argomento e trovo sempre una quantità impressionante di supponenza, maleducazione, arroganza, e soprattutto mancanza di basi, di gavetta, di effettivo genio che distingua il grande artista dall’onesto artigiano, quando va bene.

Ma a tutte queste persone è dato spazio, visibilità, credito.

Milioni di foto sono quotidianamente caricate in rete, molte con il nome dell’autore preceduto da Ph, in decine di trasmissioni a tema cibo centinaia di cuochi dilettanti propinano piatti improbabili a chef inorriditi, non si accettano critiche ne’ pacati suggerimenti (vedi l'ultimo vincitore di Masterchef Italia)

Gattini, tramonti e modella tatuata...ce le ho tutte!

Ho letto basita un acceso scambio di commenti tra Settimio Benedusi e qualche illustre sconosciuto che non accettava la sua opinione sulle troppe foto che girano di gattini, tramonti e modelle tatuate col culo per aria.

Non sei d’accordo? Benissimo, però cerca almeno di argomentare con cognizione di causa.
No, dicevano che anche loro sarebbero famosi se avessero a disposizione set, modelle e attrezzature al top come lui… 

Leggo commenti alle magnifiche foto di Giovanni Gastel (che io adoro) dove si disquisisce perfino sulla vita privata dei soggetti ritratti o si liquida lo scatto con un “banale, da te mi aspettavo di più” (tra artisti ci si dà del tu, ovviamente).

Probabilmente avere ottenuto qualche decina di “like” su Flickr o Instagram autorizza questa pletora di imbecilli a parlare a vanvera senza rispetto per la professionalità di chi mastica di fotografia da decenni.

Ma guarda e impara!

É stancante assistere a queste continue polemiche, al quarto d’ora di celebrità di pomposi dilettanti, a questa corsa al consenso e alla notorietà a scapito della qualità, delle regole di base, senza pazienza e senza umiltà.


Mi sono scoperta a desiderare un coppapasta.  Attrezzo del quale fino a poco tempo fa ignoravo perfino l’esistenza. Conosco il pepe di sichuan e forse un giorno preparerò del gelato usando il ghiaccio secco.

Che anch’io stia abbracciando il lato oscuro?  Farò vedere a Heston Blumenthal chi è più bravo…
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